venerdì 10 agosto 2012

Gli stranieri colti e l'azzeramento dello status sociale

La prima persona a mettermi nella testa il concetto di "stranieri colti" fu il mio amico Marco, anni fa, ai tempi del primo soggiorno studio in Irlanda.
Quanti bagagli ci eravamo portati per quindici giorni, mamma mia, e che impresa arrivare a Dublino passando per Bruxelles. Manco stessimo viaggiando verso il Perù. Ma che esperienza!
Mi ricordo che un giorno, passeggiando in quel di Dublino, Marco disse: "I vecchietti che parlano inglese mi fanno un effetto strano. È come se fossero molto più intelligenti e colti dei nostri". 
Era una prospettiva che non avevo mai immaginato, ma non era poi così strana. Poi mi ci sono abituata, ma l'ho estesa. E ragionavo qualche giorno fa sul venditore di pesce del mercato, ad esempio, o sul gestore del chiosco di bibite per strada, o sul pescatore, sul tagliaboschi, sul muratore. Insomma, quelle figure che da sempre associ più alla fatica che allo studio. Se penso al mercato, mi viene subito in mente il napoletano che urla "Pesceeeee, pesce freschcooooo!", se penso all'ambulante, ecco il romanaccio di via Sannio che fa "Ah bella, vie' qua che te 'a fasssccccio vede' io 'na majetta". A Terni il contadino direbbe "Te venno certi pommodori nostrani, signori', che li spacchi là lu piattu, ce metti 'n po' de bbasilico, e sendi che magni". Ad ogni modo, le figure "di fatica" io le associo al dialetto, ma prevalentemente quello del Centro-Sud. I dialetti del nord Italia per me sono tutti da ufficio. Chissà perché. 

Ma se penso al pescivendolo, al contadino, a chiunque svolga il lavoro di fatica in un altro paese occidentale e sviluppato e parla un'altra lingua, ecco che le  peculiarità che attribuisco agli italiani spariscono tutte. Il pescatore svedese, il venditore di hamburger di Londra, la contadina tedesca (esistono?), il muratore danese,  il ristoratore giapponese: per me sono tutti ingegneri o letterati che hanno studiato e si sono presi due lauree per fare quel mestiere, perché il non saper riconoscere la sfumatura linguistica tipica della cultura di appartenenza annienta la mia idea di status sociale. Certo, se vedo un barbone o un disperato che chiedono l'elemosina per strada, lo status sociale è evidente. Così come se vedo le forze dell'ordine, i politici, insomma quelle persone che a livello estetico trasmettono subito un'immagine forte. Ma il resto si azzera. Tutti uguali, tutti cittadini del mondo che sanno parlare una lingua straniera e che, si sa, almeno in Europa, hanno studiato per raggiungere quei livelli. 
Il mio cervello è utopia allo stato puro.

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