venerdì 17 agosto 2012

Algo

Algo se muere en el alma cuando un amigo se ne va. 

Detto da una persona con cui ho collaborato solo a livello professionale, senza nemmeno incontrarsi mai, e che in quanto a esperienza potrebbe mangiarmi in testa... un briciolo di soddisfazione me lo dà. Quella di avergli probabilmente lasciato qualcosa di buono!

venerdì 10 agosto 2012

Gli stranieri colti e l'azzeramento dello status sociale

La prima persona a mettermi nella testa il concetto di "stranieri colti" fu il mio amico Marco, anni fa, ai tempi del primo soggiorno studio in Irlanda.
Quanti bagagli ci eravamo portati per quindici giorni, mamma mia, e che impresa arrivare a Dublino passando per Bruxelles. Manco stessimo viaggiando verso il Perù. Ma che esperienza!
Mi ricordo che un giorno, passeggiando in quel di Dublino, Marco disse: "I vecchietti che parlano inglese mi fanno un effetto strano. È come se fossero molto più intelligenti e colti dei nostri". 
Era una prospettiva che non avevo mai immaginato, ma non era poi così strana. Poi mi ci sono abituata, ma l'ho estesa. E ragionavo qualche giorno fa sul venditore di pesce del mercato, ad esempio, o sul gestore del chiosco di bibite per strada, o sul pescatore, sul tagliaboschi, sul muratore. Insomma, quelle figure che da sempre associ più alla fatica che allo studio. Se penso al mercato, mi viene subito in mente il napoletano che urla "Pesceeeee, pesce freschcooooo!", se penso all'ambulante, ecco il romanaccio di via Sannio che fa "Ah bella, vie' qua che te 'a fasssccccio vede' io 'na majetta". A Terni il contadino direbbe "Te venno certi pommodori nostrani, signori', che li spacchi là lu piattu, ce metti 'n po' de bbasilico, e sendi che magni". Ad ogni modo, le figure "di fatica" io le associo al dialetto, ma prevalentemente quello del Centro-Sud. I dialetti del nord Italia per me sono tutti da ufficio. Chissà perché. 

Ma se penso al pescivendolo, al contadino, a chiunque svolga il lavoro di fatica in un altro paese occidentale e sviluppato e parla un'altra lingua, ecco che le  peculiarità che attribuisco agli italiani spariscono tutte. Il pescatore svedese, il venditore di hamburger di Londra, la contadina tedesca (esistono?), il muratore danese,  il ristoratore giapponese: per me sono tutti ingegneri o letterati che hanno studiato e si sono presi due lauree per fare quel mestiere, perché il non saper riconoscere la sfumatura linguistica tipica della cultura di appartenenza annienta la mia idea di status sociale. Certo, se vedo un barbone o un disperato che chiedono l'elemosina per strada, lo status sociale è evidente. Così come se vedo le forze dell'ordine, i politici, insomma quelle persone che a livello estetico trasmettono subito un'immagine forte. Ma il resto si azzera. Tutti uguali, tutti cittadini del mondo che sanno parlare una lingua straniera e che, si sa, almeno in Europa, hanno studiato per raggiungere quei livelli. 
Il mio cervello è utopia allo stato puro.

sabato 4 agosto 2012

La mia prima volta con Mascagni


Venerdì 3 agosto 2012. Un giorno come tanti? Per me, no.
Una delle mie prime volte. 
Non quella, certo che no, non la metto mica in piazza, quella.
La mia prima volta all'opera, con la Cavalleria Rusticana di Mascagni. E di sicuro qualche sentimento è affiorato, se il mattino dopo mi sveglio con la voglia di ascoltare ancora e ancora l'aria dell'intermezzo e con vive le sensazioni di una serata che valeva la pena di trascorrere.
E doveva essere destino, dato che il venerdì era già impegnato, per il giornale, con uno spettacolo di teatro dialettale. Che, con tutto rispetto, non regge minimamente il confronto per il tipo di intrattenimento. Fatto sta che quando Antonio mi chiama per il cambio di programma, la cosa mi scoccia un po': il teatro dialettale è una ricchezza e lo spettacolo di Renato Brogelli, "Lu fiju de Parlinfaccia", già lo pregustavo da giorni. Controvoglia scrivo all'organizzazione per l'accredito stampa, che arriva dopo poche ore, e, chiamando, il dovere mi impone di prepararmi sui curricula degli artisti, sulla trama esatta, sul libretto. Cerco su YouTube l'aria, per capire di cosa si tratti, e inizio a informarmi su come andare, su cosa portare, eccetera eccetera. Uno spettacolo così mi offre anche una platea gratuita di cui approfitto andando in buona compagnia. Devo essere carina, elegante al punto giusto perché non è la prima e non è teatro, ma non troppo formale. Ricevo vari complimenti e capisco che ho scelto anche la tenuta adeguata, e attendo in fila l'ingresso, con in mano il mio biglietto gratuito, che quasi mi vergogno un po' a esibire, visto che il lavoro di tanti professionisti va pagato. Il mio in effetti non è affatto pagato, ma cerco di trattarlo come un bel bambino che prima o poi darà i suoi frutti. 
Prova luci, musicisti e cantanti in attesa. 
E poi l'inizio. 
L'interludio già mi incanta. Molto fa l'arpa, sin da subito, uno degli strumenti che più mi catturano. E poi gli archi, e i fiati. Il suono dolce dei violini. Il silenzio assoluto di un anfiteatro che ultimamente è stato, e ho, riscoperto. Un'acustica perfetta e la quarta fila della platea mi permettono di godere del suono sublime delle note come se tutti stessero suonando lì solo per me. 
Ogni tanto devo distogliere lo sguardo per fare qualche fotografia, cercando di arrecare il minor disturbo possibile a una scena così splendida, ma per tutto il resto della serata sono come rapita dalla bellezza della musica e dall'esecuzione perfetta degli artisti che si esibiscono.
I sentimenti della storia sono anche un po' miei. Amore, tanto amore. E poi il dolore, la sofferenza, l'orgoglio ferito, la riscossa, anche se a denti stretti.
Tutto mi prende, tutto mi trasporta, sono come in un altro mondo, quello del paesino descritto da Verga, quello dell'osteria di Mamma Lucia. La musica fa il suo lavoro, raggiunge il suo obiettivo, mi tocca l'anima. Il momento clou, però, arriva con l'intermezzo. L'avevo già ascoltato, ma non avevo minimamente immaginato l'intensità di averlo davanti, suonato di fronte a me. Brividi a fior di pelle, i pensieri volavano altrove e ad altre persone, le note meravigliose mi spingevano a chiudere gli occhi, come se in quel momento tutto sparisse, e mi sentivo invasa da una sensazione di serenità totale. Solo io e le note, io e la musica, niente altro.
E la voglia che tanto splendore non finisse mai.
E il desiderio, stamattina, al risveglio, di riascoltare quelle stesse melodie. 
A giudicare dal risultato, credo di aver iniziato in modo soft e col pezzo giusto. Un solo atto, grande qualit à del cast, location suggestiva.
Una cosa è certa: snobbiamo troppe cose, nella nostra vita, non avvicinandoci perché manca l'occasione, o la voglia, o la compagnia, arrivando troppo tardi a capirne la bellezza. 
E io, che pensavo di dormire, credo di aver proprio segnato l'inizio di un grande amore. In ritardo? Forse, ma per l'amore vero basta che il momento arrivi, come dicono i saggi, perché non è mai troppo tardi. 

P.S. Il mio articolo di non esperta musicale avrà di certo le sue pecche tecniche. Ma in fondo cosa conta la critica per il lettore medio di un quotidiano locale? Poco, ben poco. Di maestri ce ne sono molti, io ho solo raccontato ciò che ho visto e provato, cercando di metterci il massimo.